martedì 17 aprile 2012

Diario della pioggia: Notarella introduttiva



Marcello Benfante, che ha scritto Diario della pioggia, racconta come sono andate le cose.

L’avventura comincia così, qualche anno fa. Gianni Allegra, dopo avere realizzato per Frassinelli “Il giocatore” con Roberta Torre, pensa a un nuovo lavoro. Cerca uno scrittore che lo affianchi. La casa editrice gli procura qualche contatto con alcuni autori, ma la collaborazione risulta difficile. I tempi non combaciano, gli impegni si sovrappongono. Trovare un partner, si sa, è sempre problematico.
E qui entro in campo io, che con Gianni ho già fatto altri lavori e ho una lunga frequentazione. Sto scrivendo un racconto lungo o un romanzo breve, chissà. Il titolo provvisorio è Rain , proprio come la celebre canzone dei Beatles, il cui ritmo vibrante e psichedelico mi ronza nella testa, insieme a quelle oscure e inquietanti parole: They might as well be dead (“Potrebbero essere morti”). Già, e se piovesse su un mondo di trapassati? D’altronde, it’s just a state of mind (“è solo uno stato mentale). La pioggia può essere ben altro che un fenomeno meteorologico. Un simbolo, magari. Di cosa? Di un piangere del mondo alla fine del mondo?
Ma l’origine di tutto forse è anche più antica. C’è un vecchio libro tra i miei scaffali: La grande pioggia (The Rains Came, 1940) di Louis Bromfield. È un Omnibus Mondadori dello stesso anno che apparteneva ai miei genitori. La copertina, di un terragno color ocra, sta andando a pezzi. L’umidità? “Romanzo dell’India moderna”, recita il sottotitolo. E nell’esergo una citazione carica di mistero: “Tra due mondi: l’uno morto e l’altro impotente a nascere” (M. Arnold).
Lo lessi da ragazzo senza forse capirne molto. Mi restò invece più impresso il film che ne trasse Jean Negulescu: Le piogge di Ranchipur (The Rains of Ranchipur, Usa 1955), dove s’incrociano e sfuggono i fascinosi sguardi di Lana Turner e Richard Burton.
E sarebbe già tutto, per dire del nascere di un’ossessione, se non dovessi pure rendere omaggio al Georges Simenon di quel perfetto romanzo sull’infanzia e sul ricordo che s’intitola Pioggia nera (Il pleut, bergère..., 1941).
Questo l’antefatto. Ma veniamo alla realizzazione del progetto. A Gianni il soggetto piace subito e comincia a fare i primi schizzi. Io nel mentre vado traducendo i capitoli già scritti in una sceneggiatura. D’ora in poi sarà la sceneggiatura, il graphic novel, a imporre il suo ritmo alla narrazione e alla scrittura.
L’idea di base è quella di porre in essere un crocevia di storie in cui l’intrecciarsi dei destini consente un continuo slittamento da un genere all’altro, ma con una dominante noir.
Dal punto di vista grafico-stilistico, l’atmosfera cupa, claustrofobica, è stemperata da un tocco ironico del disegno che emerge da un impianto sostanzialmente drammatico e realistico.
La storia prende corpo. Anche nel senso che Gianni, col suo disegno, le dà forma, plasmando come un demiurgo le fisionomie. I personaggi rinascono sulle tavole. La matita di Gianni dà loro un volto, il physique du rôle.
Ma poi, una volta creati, essi impongono la loro personalità, si dimostrano animati da un’energia esistenziale autonoma. Robinson, il narratore, ha il viso segnato da umori kafkiani, ma anche da una tristezza che rimanda a Tenco. Quando Gianni me lo mostra, mi accorgo che non assomiglia a quello che avevo immaginato. Ma va benissimo così. È perfetto per l’alone surreale che vogliamo suggerire. E così pure per altri, che d’altronde un work in pogress , di studio in studio, di bozzetto in bozzetto, sottopone a un’evoluzione continua, a una sempre più drastica economia di segni.
Ne deriva un pirandelliano giuoco delle parti che ci spiazza e sorprende. Accade così che un mendicante girovago nasca da una costola di Buñuel, il mio regista preferito, come una citazione de La Via Lattea, e prenda quindi il nome di Luis. Ma il personaggio, giunto sul tavolo anatomico di Gianni, assume i tratti somatici di Stevenson, il mio scrittore più amato (e amatissimo anche da Gianni, che da sempre vagheggia di disegnare L’Isola del tesoro). Luis prende in prestito le fattezze eleganti ed emaciate di Louis. Ma non è l’unico cortocircuito. Il vagabondo è adottato da un cane randagio che lo segue con devota elezione. Ebbene, anche Gianni troverà sulla sua strada un cagnetto tale e quale a quello che aveva disegnato. Forse una premonizione o un intuito che crea, imponendo alla realtà il frutto dell’immaginazione. Dove comincia la vita? Dove finisce il fumetto? O viceversa.
Certo Luis riprenderà il cammino e di nuove esperienze sarà testimone. L’apocalisse può attendere. Ammesso che non sia già avvenuta.

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