giovedì 31 maggio 2012

Diario della pioggia a Una Marina di libri

La prefazione di Gian Mauro Costa per Diario della pioggia. Domani presentazione del graphic novel all'interno della rassegna Una Marina di Libri, allo Steri di Palermo, alle ore 19.
C’è una regola non scritta ma infallibile nella storia del rock. I brani che portano nel titolo la parola rain sono struggenti, sì, ma soprattutto bellissimi. Qualche esempio? Beh, non c’è che l’imbarazzo della scelta: si può partire da Rain dei Beatles e dall’Hard Rain di Bob Dylan, passare all’accoppiata Have you ever seen the rain e Who’ll stop the rain targata Creedence, transitare da Fallin’rain dei Neville Brothers, Purple Rain di Prince… E il gioco, provateci, può essere riproposto anche per romanzi e film. Ebbene, Gianni Allegra e Marcello Benfante questa regola sembrano possederla nelle vene. Diario della pioggia porta nell’anima un carico di nubi nere, minacciose e risolutive, che libera sulla terra un fardello di angosce dilanianti, di sentimenti disperati, di ribellioni individuali e collettive, di attese ciniche e romantiche, di vite scivolose come rigagnoli maleodoranti. La pioggia, incessante e ossessiva dalla prima all’ultima inquadratura, è una condanna atavica, un monito millenaristico, una resa dei conti ecologica, un lavacro di liquidi infernali. Ma è anche una fonte battesimale: l’acqua, sporca, possiede l’ossimoro della purificazione, deterge malvagità e ingiustizie, scioglie il sangue con le lacrime, il sudore, la saliva. Ed è su questo scenario dipinto tra l’Apocalisse biblica e il Godot di un’improbabile aurora boreale, fra struggimento e spietatezza, tra amori gotici e violenze pulp, che si dipana la storia di Allegra e Benfante. Una storia che non poteva che avere la forza espressiva del fumetto, del graphic novel. Sì, perché solo il fumetto ha la capacità magica di coniugare narrativa e cinema, realtà e finzione, parola e immagine, racconto di cronaca e visione onirica. Marcel Proust scriveva, a proposito della musica popolare: “Il suo posto è immenso…Siccome essa si suona e si canta più appassionatamente della musica classica, a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini”. Lo stesso discorso, rivolto alle lobbies accademiche ed editoriali, potrebbe esser fatto sul fumetto. Spesso bistrattato, snobbato, relegato tutt’al più alla sfera di un passaggio obbligato dell’adolescenza, il fumetto ha invece dimostrato di avere una sua maturità narrativa, una sua capacità evocativa ineguagliabile. Una storia erotica, ad esempio, raccontata con i disegni ha un’eleganza, una leggerezza, un’intensità, un quid di sensualità che fotografia e cinema difficilmente possono aspirare a raggiungere. Il fumetto, poi, ha un’immediatezza descrittiva, un’efficacia verbale, una incisività visiva, che lo rendono una delle forme più efficaci di comunicazione. Simile al giornalismo ma con la vocazione al romanzo. Parente stretto del cinema ma con la precisione della fotografia. I francesi, questo, lo hanno capito da tempo. In Italia le cose sono andate sinora diversamente. C’è stato bisogno di personaggi forti, e particolarmente amati, dei Tex, dei Diabolik e Dylan Dog, per decretare uno stabile successo editoriale, ma fondato sulla serialità. In controtendenza, Marcello Benfante e Gianni Allegra, l’uno scrittore brillante e critico letterario acutissimo, l’altro disegnatore, pittore di talento, vignettista di personalissimo e graffiante tratto, hanno deciso di scommettere sul graphic novel. E non con la trasposizione su tavole di un romanzo già esistente. Ma con una storia originale in cui hanno messo in gioco il loro stesso percorso culturale e artistico. Ne è uscita fuori un Diario della Pioggia in cui la scrittura e il disegno si fondono con decisa efficacia. Benfante ha usato un linguaggio scarno ma elegante che scolpisce, nei dialoghi e nei colonnini, l’intensità delle singole storie, raccontate attraverso la coinvolgente presenza di un io narrante. Allegra ha delineato personaggi e scenari urbani di grande effetto adoperando la matita come un bisturi, scavando i volti, lacerando con un sapiente alternarsi di inquadrature strette e larghe le scene più movimentate e narrativamente drammatiche. Di rigore la scelta del bianco e nero, sia per i disegni che per le parole. Robinson, il nome d’arte del protagonista, è un giornalista di una provincia maledetta che possiede una melanconia chandleriana. Ha interrotto la stesura di un suo romanzo di fantascienza perché la cronache che deve scrivere sovrastano già ogni immaginazione. Si sposta, caracollando tra languidi interni e agitati esterni, e raccoglie storie e frammenti di vite vissute o mancate. Le cerca nelle prigioni, nelle stazioni della metropolitana, nei locali. E’ come se volesse catalogare ciò che merita di essere raccontato, salvato, per essere portato sull’arca di Noè che sopravviverà, forse, al diluvio che sommerge uomini e cose. Vengono così in rassegna, capitolo dopo capitolo, le storie d’amore e di morte del Levantino, nomen omen, maestro del crimine che ritiene poco elegante ricorrere al sangue, di Mancino, iracondo e violento, di Leo e del suo sogno passionale stroncato sotto un plumbeo lampione. E quelle di una città dove scienziati e predicatori sono accomunati nella sconfitta e nell’emarginazione e dove si celebrano gli effimeri trionfi dei ruffiani della politica e del potere. Nella Grande pioggia si può leggere, se si vuole, anche la cronaca di una Sicilia sempre più colpita anche dal dissesto colpevole della sua natura. Ma questa è solo una delle possibili chiavi di approccio a un racconto ricco di metafore e citazioni. Da quelle più evidenti, vedi un fotogramma di Casablanca, a quelle più discrete, come il nome di un personaggio, Luis, che rimanda al grande Bunuel. Del resto l’orizzonte creativo di Allegra e Benfante va ben oltre i confini delimitati dalla geografia. Spostandoci altrove, troveremmo “stessa città, stessa pioggia”, che è poi il titolo di un romanzo di Paco Ignacio Taibo II. Romanzo, come La grande pioggia, che rispetta l’infallibile regola. GIAN MAURO COSTA

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